Datore di lavoro all’estero, ma smart working in Italia che comporta?

Smart working e residenza, che succede con il datore di lavoro in un altro paese dal punto di vista fiscale e tributario

Smart working fiscalità
Smart working (Foto Adobe – larciere.it)

Il mondo del lavoro è sempre più diversificato e globalizzato. Sempre più si lavora senza contatti diretti con il proprio contesto territoriale e amministrativo. magari perché il datore di lavoro risiede all’estero, magari perché le collaborazioni richiedono frequenti spostamenti con cambi di domicilio o di residenza. In casi come questi la questione dei rapporti tra regolamenti nazionali e internazionali diventa importante determinando conseguenze fiscali e amministrative.

Oltretutto la tecnologia consente di lavorare per conto di datori e imprese straniere risiedenti fiscalmente in altri paesi con problemi nella gestione delle questioni tributarie e contributive. Si rischia addirittura la doppia imposizione se le cose non vengono chiarire dettagliatamente.

Lavoro in smart working con l’estero come regolarsi con il fisco

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Smart working (Foto Adobe – larciere.it)

Il lavoro comporta sempre più contatti e collaborazioni con l’estero, ma il rischio è scontrarsi con la normativa vigente in uno dei due paesi. In effetti quello che determina il regime fiscale e non solo sono gli accordi bilaterali con i singoli Paesi. Lo stesso TIUR (Testo unico delle imposte sui redditi ) indica il principio della prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno come evidente dall’articolo 169.

Sempre per il TUIR sono considerate fiscalmente residenti in Italia le persone che per almeno 183 giorni:

  • risultano iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
  • possiedono il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato.

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Per essere fiscalmente residente  in Italia, con le conseguenze del caso, occorre anche una sola delle due coondizioni citate sopra. Ma come accennato sono prevalenti gli accordi bilaterali nel paese, per esempio con la Gran Bretagna con gli accordi del 1988. Nello specifico questi considerano i seguenti elementi:

  • il criterio dell’abitazione permanente;
  • il centro degli interessi vitali;
  • il soggiorno abituale;
  • la nazionalità del Contribuente.

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Quindi il lavoratore italiano, con datore di lavoro domicilato all’estero in Inghilterra, che si trasferisce in Italia non può essere considerato residente se la maggior parte del periodo d’imposta, la residenza o il domicilio non sono stabiliti in Italia. Successivamente, se l’anno seguente il periodo d’imposta supera i 183 giorni, il lavoratore viene consiederato fiscalmente residente italiano, con redditi prodotti tassati nel Paese, come afferma il TUIR e la convenzione con la Gran Bretagna.